La curiosità per Tommaso Landolfi mi nacque, ormai molti anni fa, come spesso accade, del tutto per caso.
Landolfi è infatti citato in una canzone di Franco Battiato, e a forza di ascoltarla ho cercato di capire a chi si riferisse. Perché Landolfi non è uno di quegli autori che, a scuola, ti spingono a leggere. Non perché abbia, in maggiore o minore misura, la dignità dei “grandi”, anzi. Ma perché è considerato un autore di nicchia, un intellettuale elitario e destinato a un pubblico di “addetti ai lavori”. Rileggendo la sua opera omnia, si comprende la forte spinta verso una comprensione assoluta dei meccanismi della comunicazione moderna e decisamente attuale.
In effetti, il nostro è scrittore ambiguo e molto complesso, sia per il linguaggio utilizzato, sia per gli argomenti trattati, infine per la sua posizione di uomo e di artigiano della parola. Autore del Novecento ne subisce tutte le fascinazioni e le contraddizioni. Con un piede nella modernità e uno nel passato; in bilico tra una scrittura lutulenta e ponderosa e la spinta verso la rapidità e la concisione tipiche del Futurismo. Tormentato, nero, sintonico con il Simbolismo (di cui ama i temi), nella sua scrittura, quando si fa più intimista, personale e (forse) autobiografica, trova inediti punti di contatto con l’Esistenzialismo di Sartre e Camus.
Volendo trarne un filo conduttore, mi appoggio alla rilettura critica che ne ha fatto Italo Calvino (suo buon conoscente e grande estimatore) che trova nella sua vita, improntata alla contraddizione, e nella sua opera, altrettanto disomogenea e sincopata, un minimo comune denominatore: il Caso.
Il caso non esiste secondo Landolfi, eppure tutta la sua vita sembra esserne condizionata. In primo luogo Landolfi è giocatore (e giocatore ossessionato), ma come ci racconta Calvino è giocatore casuale e non scientifico. Non utilizza strategie o metodi ma pone la sua Fortuna nelle mani del Caso. La sua vita lo porterà a vivere a San Remo e lo farà un assiduo frequentatore del Casinò. La sua opera è, allo stesso modo del gioco, disomogenea e irrazionale. Racconti, brani, riflessioni, la fanno da padroni. Alcune pagine sembrano sintatticamente incerte, buttate appunto a caso, altre denotano una precisione di linguaggio e una chiarezza d’intenti insospettabile.
Certo è che Landolfi ha scritto pagine di una bellezza e di una potenza evocativa davvero rare. Penso a “Racconto d’autunno”, impregnato del buio e della bruma, sottilmente inquietante ed evocativo (in puro stile Simbolista). Penso al diario “Rien va”, con il suo disincanto e il suo cinismo sulla vita, dove forse più forte si percepisce l’influenza Esistenzialista. Il brano vale la pena di riportarlo: “…E’ difficile credere seriamente che un caso (che è sempre e tuttavia un accadimento) sia casuale, o insomma credere seriamente al caso. Pel semplice fatto che una cosa accade non può essere casuale… Ma qualcuno ha inventato il caso e tutti i pensanti lo hanno accettato: anche coloro che mostrano di rifiutarlo quale ordinatore o disordinatore dell’universo lo ammettono poi implicitamente in ogni momento della loro giornata. Di vero non v’è se non che lo spirito giace eternamente in catene, poco importa da chi forgiate”.
O penso, ancora, all’incredibile e quasi kafkiano elzeviro apparso sul Corriere della Sera del 6 novembre 1976 “Porcellino di terra”, ove Landolfi riassume la solitudine del protagonista dopo l’abbandono della moglie e dei figli con un semplice: “E, di nuovo, come varcare il deserto della serata, della nottata, e poi di tutte le altre serate e nottate, sia pure brulicanti di stelle, e mattinate, sia pure sfolgoranti di sole?”.
Ma Landolfi fu anche traduttore dal russo e dal tedesco e il molto successo di Gogol e Leskov, ma anche quello di Hofmannsthal, in Italia, si devono anche alle sue interpretazioni e al suo amore per la lingua italiana. Lui, così poco propenso ad affidare valore alla tradizione, decadente e disincantato che ricalca il modello del dandy di fine ottocento, della lingua italiana è vero conservatore ossessionato.
E di questo ne offre mille esempi diversi. Probabilmente il più luminoso di questi è nel racconto “La passeggiata”. Qui Landolfi scrive in un italiano completamente incomprensibile, che parrebbe inventato, ma se ci si prende la pena di consultare un dizionario, si può facilmente scoprire che le parole che egli utilizza esistono tutte, ma sono quelle ormai cadute in disuso, quelle che il lessico parlato ha relegato, appunto, solo nei dizionari. Sarà l’autore stesso, ironicamente, a svelarne il trucco qualche anno dopo non resistendo infatti alla tentazione di sbeffeggiare coloro che non c’erano arrivati.
E questa ironia serpeggia in molte pagine delle opere di Landolfi, ancora una volta in bilico tra la critica spietata dei costumi, l’amarezza per l’apparente inutilità della vita e lo sguardo cinico e distaccato che egli ama posare sugli altri. Mi viene in mente il brano del racconto “Foglio volante”, nel quale si narra del ritrovamento di un bimbo, nella giungla, cresciuto dalle scimmie. Ebbene ironicamente Landolfi scrive: “… gli eroici soccorritori lo sono andati a cercare per ‘recuperarlo’ al consorzio umano, al vivere civile e alla santa religione degli avi. Il bambinuccio, dice che pel momento grugnisce anziché parlare e rifiuta ogni cibo non silvestre, ma soggiunge gongolante il giornalista, ispirato dallo psichiatra, ispirato a sua volta dal confessore o da chissà quale altro solenne castrone, che presto sarà come tutti gli altri bambini; e, rincaro io, potrebbe un giorno, coll’aiuto del Signore, arrivare al punto in cui siamo noi e godere di ciò che rallegra e fa felici noi stessi… […]”
Insomma un autore complesso, decisamente da scoprire o da rileggere se si ha già avuto la fortuna di incontrarlo sulla propria strada.
Il ritratto di Tommaso Landolfi è opera di Tullio Pericoli del 1993.