Perché molte persone non rispettano i divieti malgrado l’emergenza Coronavirus? Perché alcuni mettono in atto, comunque, comportamenti pericolosi?
Queste domande sono di grande attualità ma, se estendiamo il concetto, valgono per molte altre situazioni (sicurezza sul lavoro, stradale ecc.).
Lo psicologo statunitense Paul Slovic, esperto delle tematiche relative alla percezione del rischio, spiega il fenomeno con il concetto di “cornice di riferimento”. Ossia quell’area che “contiene” la nostra esperienza soggettiva, le nostre conoscenze sull’argomento, l’ambiente in cui viviamo e le informazioni che ci arrivano dalle persone che ci circondano (e che stimiamo). Di fatto, se non siamo particolarmente competenti su un certo argomento, tendiamo ad adeguarci al comportamento del gruppo di cui facciamo parte. La paura di differenziarci dalla mentalità dominante, condizionerà il nostro agire.
Per comprendere meglio questo meccanismo, consiglio di dare un’occhiata al noto esperimento di psicologia sociale di Asch.
La strenua difesa dello status quo
Il secondo elemento è assimilabile al bias dello status quo, ossia l’inclinazione naturale a sottostimare (e spesso a evitare) tutto ciò che mette in crisi le nostre abitudini. Proteggere la zona di confort è l’obiettivo principale della nostra mente. In questa zona di confort trovano posto la salute, il lavoro e il tempo dedicato allo svago. In altre parole il concetto di Libertà.
Come sottolinea lo psicologo Paolo Crepet: “La gente non ha solo il terrore di prendersi la malattia. La paura inconscia nasce dal fatto di avere perso la libertà. E’ questa una cosa alla quale non siamo abituati.
Voglio andare al cinema? Non lo posso fare. Voglio uscire a mangiare una pizza? Non posso, le pizzerie sono chiuse. Ed è questa una sensazione difficile da coniugare ai tempi di oggi. Non l’abbiamo mai minimamente vissuta.”
Il terzo elemento riguarda l’opinione personale su chi stabilisce le regole. Come è vissuta la leadership di chi ci governa? Ci si fida o meno delle politiche che ci vengono imposte? Siamo convinti che le misure indicate porteranno a un effettivo vantaggio? Riteniamo credibili le informazioni che provengono dai canali ufficiali oppure siamo abituati a informarci tramite altri canali (internet, mondo social ecc.)?
Naturalmente maggiore è la credibilità, più alta sarà la probabilità che le regole vengano effettivamente rispettate.
Il problema della comunicazione
A queste nostre naturali inclinazioni si aggiunge, nello specifico del Coronavirus, un problema di comunicazione.
Il fatto che sia stato predicato per mesi, da parte dei media e dei politici, di non farsi prendere dal panico ha fatto si che il concetto “tranquillità”, si sia sedimentato nella nostra mente. Il tutto rafforzato da campagne volte a bollare come razziste e volte al terrorismo psicologico le opinioni di coloro che ritenevano che il livello di preoccupazione andasse alzato fin da subito.
Ricordiamo tutti la campagna con hastag Abbracciauncinese che risale ai primi giorni di febbraio.
All’atto di una inversione improvvisa del messaggio verso “preoccupazione” e a una limitazione delle libertà individuali dovuta proprio a questa allerta, la reazione avversa è stata inevitabile.
Il desiderio di riaffermare la libertà, per alcuni, è diventata impellente e imprescindibile. La convinzione che, a quel punto, qualsiasi informazione non fosse più credibile ha cominciato a serpeggiare nella mente, con i conseguenti comportamenti disfunzionali (partenze di massa e assalti ai supermercati o, al contrario, non rispetto dei divieti e dei regolamenti).
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