I Transition Manager o i Change Manager non sono consulenti. Non sono manager temporanei (ossia non sono consulenti che vengono piazzati in azienda a svolgere il normale lavoro che dovrebbe svolgere il titolare della funzione alla quale vengono preposti). Non sono nemmeno dei supplenti che, in caso di “vuoto” riempiono gli spazi e le poltrone. Si tratta di manager che hanno deciso di offrire un servizio particolare all’azienda-cliente. Ossia un’analisi precisa e puntuale di una situazione aziendale che deve partire, che è partita ma non funziona o che, semplicemente, necessiti di una figura professionale di alto livello per avviare o migliorare un dipartimento aziendale e, messo il dipartimento medesimo sulla strada corretta, lascia il posto a chi, quella sede, occuperà definitivamente. A che pro servirsi di una figura professionale di questo tipo? I vantaggi sono molti: costi certi, obiettivi definiti, risultati misurabili. Un contratto che consente di inserire una figura manageriale “a tempo”, e quindi caratterizzata dal massimo della flessibilità, per gestire, migliorare o lanciare qualcosa di nuovo o rilanciare il consolidato.
In che ambiti opera di preferenza il Transition Manager? Se la sua collocazione in azienda è riconducibile a una specifica figura professionale (per esempio la direzione vendite o quella marketing), allora il manager in questione applicherà le proprie tecniche e competenze a quell’unico dipartimento. Se invece si volesse sfruttare a pieno la figura del Transition Manager (all’estero definito anche e meglio come Change Manager) allora bisognerebbe affidargli un compito più “arduo”. Analizzare l’impresa e comprendere quali sono le aree di criticità dell’azienda nelle quali operare correttivi per farle compiere “il cambiamento”. Il campo di operazioni ideale del Transition Manager, infatti, è proprio quello che si presenta quando in azienda il vertice si rende conto che tutto funziona ma che, in qualche modo, potrebbe funzionare meglio. Ancora, quando in azienda si è tentato di apportare correttivi ma questi non hanno funzionato come si sperava e i risultati non sono cambiati (se non sono addirittura peggiorati). I corsi sostenuti dai manager di transizione e che li abilitano a questa professione, infatti, forniscono strumenti specifici di analisi dell’azienda che si aggiungono alle competenze maturate da ciascuno di essi nel proprio campo specifico.
All’estero se ne fa largo impiego (e non a caso i corsi di formazione si sostengono per lo più in Francia, Belgio e Stati Uniti), in Italia ancora molto poco (se non nei casi in cui il manger è visto come un “superdirigenteinterinale”), eppure il manager di transizione è la figura ideale per rispondere a molte delle esigenze delle aziende, soprattutto in momenti di crisi come quello che il mercato sta vivendo.